Frida Nacinovich
Per un punto i Socialisti spagnoli e Unidas Podemos sono riusciti ad approvare la riforma del mercato del lavoro. E per un punto il Partito Popolare ha perso la cappa, come il Martin del proverbio, e anche la calma. È finito fra accuse incrociate l’iter legislativo di uno dei provvedimenti più attesi dalla società spagnola. La riforma del 2012, voluta dal governo del popolare Rajoy, precarizzava a tal punto il settore che la stessa Unione Europea era dovuta intervenire, per chiedere alla Spagna di correre ai ripari. In proposito, i dati dell’Istituto nazionale di statistica (Ine) sono impietosi: più del 25% dei lavoratori iberici hanno contratti a tempo determinato, e il tasso di disoccupazione è tra i più alti del continente europeo, il 14,57% sul totale della popolazione attiva, e il 31,15% tra i giovani con meno di 25 anni, che faticano a trovare protezioni contrattuali. Di fronte a questa vera e propria destrutturazione del mercato del lavoro, Bruxelles è stata chiara: se volete i fondi europei cambiate la legge. Detto fatto, il governo di Pedro Sánchez ha approvato con decreto una riforma del mercato del lavoro in accordo con le parti sociali, sindacati (Ccoo e Ugt) e rappresentanti delle imprese. La riforma cancella gli aspetti più odiosi della precedente normativa: restituisce l’ultrattività dei contratti, la prelazione del contratto di settore su quello d’impresa, riduce la precarietà del lavoro in favore del contratto a tempo indeterminato e conferma il meccanismo degli Erte (cassa integrazione straordinaria) come alternativa ai licenziamenti. Da notare che nei periodi più duri della pandemia gli Erte hanno protetto 3.600.000 lavoratori e lavoratrici, e salvato 560.000 imprese dalla chiusura.
Il cammino non è stato facile, la legge è stata approvata da una maggioranza diversa da quella progressista che sostiene il governo: a votare ‘no’ gli indipendentisti di sinistra catalani e baschi (Esquerra e Bildu) per ragioni legate più a fibrillazioni dell’area governativa che ai contenuti della normativa, e il Pnv, il partito nazionalista basco, perché non è stata accolta la richiesta della prevalenza del contratto regionale su quello statale.
A partire dal nostrano pacchetto Treu (1996) per arrivare al contrastatissimo Jobs act del governo Renzi. A ben guardare sia i governi di centrodestra (Berlusconi, Aznar) che quelli del cosiddetto centrosinistra (Prodi, Zapatero, Schroeder) hanno seguito il sentiero di una sempre più marcata flessibilità. Sacrificando sull’altare del profitto la stabilità, i diritti e le tutele di chi per vivere deve lavorare.
La riforma spagnola è frutto di un preventivo accordo fra il governo Sanchez, i sindacati iberici e la stessa Confindustria, successivamente recepito dal parlamento grazie al deputato popolare Alberto Casero, novello Martin. In definitiva, le parti sociali si sono riappropriate della titolarità negoziale rispetto all’intervento politico-legislativo in materia di lavoro, dopo quasi un anno di confronti, anche accesi, dentro e fuori l’esecutivo targato Psoe-Unidas Podemos. Insomma il pallino del gioco è tornato nelle loro mani. Non succedeva da molto tempo. A ben vedere negli ultimi quarant’anni la deregulation l’aveva fatta da padrone, cancellando progressivamente le conquiste che, ad esempio in Italia, erano state ottenute con legge 300/70, meglio conosciuta come Statuto dei lavoratori. E se ora la Confindustria spagnola investe su nuove relazioni sindacali, guardando alla fase legata alla transizione ecologica e alle ristrutturazioni tecnologiche, al contrario le forze politiche di destra liberista, vecchie e nuove, continuano a opporsi a ogni pur minimo cambiamento dello status suo. Vergogna.
Soddisfatta, va da sé, gran parte della società iberica. Con felice metafora, ricordando Ernest Hemingway, possiamo dire che a Madrid nessuno va a letto prima di aver ucciso la notte.