Prima del Covid i salari non avevano ancora recuperato i livelli precedenti la crisi del 2008, quella innescata dai mutui sub-prime negli Stati Uniti. Con la pandemia sono ulteriormente crollati, nonostante gli aiuti pubblici. Nel 2020, con l’esplosione del coronavirus, il salario medio di un dipendente a tempo pieno in Italia è diminuito del 5,8% rispetto al 2019, con una perdita in termini assoluti di 1.724 euro. Il calo più ampio nell’Ue (-1,2% in media) e nell’Eurozona (-1,6%). Un primato senza gloria. Il ricorso alla cassa integrazione e ai fondi di solidarietà ha di fatto dimezzato la perdita, che si è comunque attestata a 726 euro in meno (-2,4%). Al tempo stesso l’occupazione ha registrato una flessione dell’1,7% contro il -1,3% dell’Eurozona, solo in parte contenuta dal blocco dei licenziamenti, visto che le imprese hanno comunque lasciato a casa i precari. Tanto per cambiare. Ora che in questo 2021 la pandemia è stata se non sconfitta quantomeno contenuta, il recupero dell’occupazione nell’80% dei casi è frutto di impieghi a termine – quindi precari – che sono oltre 3 milioni. Un esercito a cui prima o poi bisognerà dar risposta. La maggior parte dei nuovi occupati è impiegata nelle qualifiche professionali più basse, si tratta naturalmente delle meno pagate, ed è pari al 34% contro il 27,8% dell’Eurozona. Rispetto alle altre grandi economie europee, si registrano più ore lavorate e salari inferiori, complice la quota di part time involontario più alta del continente, oltre il 66%. Così non si vincono gli europei. Anzi, il confronto con le altre nazioni è particolarmente preoccupante. Nel 2019 il salario medio italiano era inferiore di circa 9 mila euro rispetto a quello francese e di oltre 12 mila rispetto a quello tedesco, il 40% in meno. Inoltre in Italia un lavoratore dipendente lavora 1.583 ore all’anno, 249 ore in più rispetto a un collega tedesco. Ma guadagna in media 30 mila euro contro i 42 mila di un lavoratore in Germania.
Tutti questi dati arrivano dalla Fondazione Di Vittorio, istituto della Cgil per la ricerca e la formazione sindacale, che ha analizzato il mercato del lavoro italiano. Si tratta di un quadro a tinte fosche, accentuato ulteriormente dal fatto che la qualità del lavoro è, appunto, molto bassa: oltre ai 3 milioni di precari, ci sono i 2,7 milioni di part-time involontari. Per giunta il salario dei part-time italiani è, in generale, più basso di oltre il 10% rispetto alla media dell’eurozona di questo particolare settore lavorativo. Si contano infine 2,3 milioni di disoccupati ufficiali, ma il numero effettivo secondo la Fondazione Di Vittorio è di 4 milioni, con un tasso di disoccupazione “sostanziale” pari al 14,5% rispetto al 9,2% ufficiale, perché vanno calcolati anche i cosiddetti inattivi, cioè coloro che sarebbero disponibili a lavorare ma non sanno dove sbattere la testa. Oppure sono impegnati nella cura di figli o di anziani, o anche sono “sospesi”, in attesa di riprendere l’attività. Il tema del lavoro riguarda la quantità di occupazione ma anche tanti aspetti della sua qualità. Va posta quindi molta attenzione al modo con cui verrà utilizzo il Pnrr, e a quali saranno le scelte della legge di Bilancio. Si fa presto a dire Europa.